La salita al Monte Kenya come celebrazione di libertà e di vita

Talvolta la montagna non appare nella nostra mente semplicemente per quello che è, ovvero un rilievo della superficie terrestre, ma spesso impersonifica desideri e proiezioni personali, assume un significato molto più profondo.

Mi ha colpito particolarmente il significato della montagna per Felice Benuzzi, nato nel 1910 e cresciuto a Trieste. Funzionario coloniale italiano ad Addis Abeba, quando nel 1941 la città viene conquistata dai britannici, viene catturato dalle truppe inglesi ed inviato in un campo di prigionia: viene separato dalla moglie e dal figlio, per essere imprigionato alle pendici Nord-Ovest del Monte Kenya, la seconda montagna più alta dell’Africa, che vanta un’altezza di 5.199 m.s.l.m.

Benuzzi rimane folgorato dalla bellezza di queste creste che ha occasione di osservare ogni giorno, sognando di evadere per poterle scalare. Vorrebbe tornare ovviamente in Italia, ma la distanza da percorrere fino al Mozambico, per imbarcarsi e fuggire, è troppa. La monotonia della vita da prigioniero lo affligge pesantemente, la sua fantasia non può che concedersi questa fuga sul vicino monte.

Benuzzi comincia ad allenarsi , reinventa il tempo, restituisce alla sua esistenza il senso che gli manca. Osserva la montagna dalla sua prigione, cercando di coglierne le caratteristiche, la morfologia, gli aspetti climatici, cerca di capire che tipo di flora e di fauna la abitano.

Inizia a cercare dei compagni tra i prigionieri che vogliano tentare questa pazzia insieme a lui. Qualcuno aderisce, poi si ritira l’indomani. Ma alla fine riesce a trovare un medico che si lascia convincere, Giovanni Balletto detto Giuàn, alpinista esperto, ed un secondo compagno, Mario.
Poche settimane prima della partenza però Mario viene trasferito ad un altro campo, ed i due alpinisti riescono successivamente a coinvolgere Enzo Barsotti, che diventa il terzo uomo della spedizione: sui trentacinque anni, autodefinitosi “innamoratissimo delle cose impossibili”.
I tre uomini scoprono da alcuni racconti che la montagna è abitata da rinoceronti, bufali, leoni, leopardi ed elefanti.

I pericoli sono numerosi, ma i tre non hanno intenzione di arrendersi, tanto meno ancor prima di cominciare.

Ed ecco qui le famose parole di Felice Benuzzi, che alla lettura paiono come il più bel fuoco d’artificio al massimo della sua potenzialità e bellezza:

”Occorreva fare, fare, fare! Occorreva che liberassi quello che era represso in me, che convogliassi tutto quello che era disperso in un’unica corrente, per fondere in essa tutto quello che sapevo, che ero, che avevo capacità di fare, bisognava profondere in essa tutta la mia esperienza di vita, di montagna, di boscaglia, la poca esperienza di guerra, la mia resistenza e il mio senso d’orientamento, l’ostinatezza, lo spirito d’avventura, il mio inesauribile desiderio di purezza, di miracolo, il mio anelito a realizzare me stesso, ad essere una volta tanto, forse un’unica volta nella mia vita, senza compromessi di sorta, tutto quello che avevo potuto essere e che per mille ragioni non fui

D.Le Breton scrive che “Benuzzi e i suoi compagni lanciano una vera e propria sfida all’amministrazione del campo; stipulano un contratto simbolico con la morte per ritrovare la stima in se’. Vinti, umiliati, privati della loro famiglia, rosi dall’attesa e dalla noia, inventano un obiettivo da perseguire con un ardore che li tiene con il fiato sospeso per mesi e che in seguito abiterà la loro memoria. La prova che s’impongono è una costruzione deliberata di senso e di valore, un modo d’immergersi in un tempo sacro.”

Durante l’attesa, preparano l’equipaggiamento con i pochi mezzi che hanno a disposizione, accumulano viveri e parlano con entusiasmo del loro nuovo obiettivo, all’insaputa dei guardiani.

Due piccozze vengono ricavate da un paio di martelli sottratti ad operai locali, e modificati da un fabbro loro compagno di prigionia. Felice e Giuàn si costruiscono due paia di ramponi utilizzando lamiere ricavate dai rottami di un’automobile e da un tondino di ferro per cemento armato. L’abbigliamento da montagna (pantaloni, giacca, berretto) viene preparato utilizzando alcune coperte, modificate e cucite da un sarto anch’egli prigioniero. Le scarpe da roccia vengono fabbricate con tela impermeabile per autocarri e reti di canapa.

Arrivato il giorno X, il 24 gennaio del 1943, i tre riescono a fuggire dal campo di prigionia senza essere notati, lasciando un biglietto che spiega la loro intenzione ed annunciando il loro rientro entro due settimane. Si nascondono subito nella foresta equatoriale: il loro cammino, tra paesaggi dall’incredibile bellezza ma anche tra rumori sospetti e pericoli, comincia.

Lo schizzo a matita della montagna, vista dal campo col binocolo

Una sera un leopardo gira minacciosamente intorno al loro campo, ma i tre uomini armati di tizzoni ardenti e picozza riescono ad allontanarlo.
Un giorno, mentre Felice Benuzzi sta riempiendo la sua borraccia in un fiume, scorge un elefante. Chiama i suoi compagni ed in quel momento contemplano il maestoso animale, vivendo minuti di pura grazia.

Dopo giorni di cammino, il cibo comincia a scarseggiare, la spossatezza grava sull’andamento ed il freddo è pungente durante la notte. A turno si ammalano gravemente.

“Prima che potessi aprire bocca per metterli in guardia, uscì dal fogliame e si diresse al fiume, a monte dei compagni, un meraviglioso solitario elefante”

I tre compagni sono finalmente all’ultimo campo base. Barsotti è stremato dalla fatica e dalla febbre, viene lasciato ad aspettare in un rifugio di fortuna, mentre Benuzzi e Balletto, attaccano il torrione più alto del Kenya.

La mancanza di informazioni li porta però a scegliere una via estremamente difficile, che alcuni scalatori precedenti avevano giudicato assolutamente impercorribile: dopo alcuni tentativi a vuoto e 12 ore in parete, i due devono ritirarsi, in mezzo ad una tempesta di neve, e ritornare al campo base.

I due giorni successivi sono dedicati al riposo, per poi ripartire nuovamente per tentare di raggiungere l’obiettivo secondario, il picco Lenana. Questa volta i due non incontrano particolari difficoltà, ed alle 10 del mattino sono in vetta, dove issano una bandiera italiana e lasciano una bottiglia con dentro un messaggio, che saranno recuperati una settimana dopo da un gruppo di alpinisti britannici.

Uno dei campi salendo verso il Monte Kenya

Terminata l’impresa, riprendono la via in senso opposto, stremati e morti di fame. Le bestie feroci non avevano certo lasciato la foresta ed i tre devono rimanere sempre concentrati per poter far ritorno al Campo 354 sani e salvi.

La loro impresa di salita al monte e ritorno dura ben 17 giorni. Condannati ai regolamentari 28 giorni di cella per l’evasione, scontano in realtà solo una settimana perché l’ufficiale inglese e comandante del campo rimane colpito dalla bellezza del loro gesto e dalla loro impresa sportiva.

Felice Benuzzi, Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti sono arrivati a 5.000 metri per mettere in atto una meravigliosa forma di resistenza, per riappropriarsi del senso di umanità che il campo di prigionia aveva loro sottratto, per riaffermare la loro individualità, ribellarsi alla sottomissione imposta, celebrare la vita ed il diritto di ogni uomo di essere libero.

P.S. Con questo articolo non si vuole comunicare nessun tipo di messaggio politico.

Laurenzia Pellegrini