“Le montagne erano come briciole sopra una tovaglia increspata. Gli scalatori le hanno rese gigantesche. Le montagne sono opera loro. Macfarlane racconta questa storia capovolta”  E. De Luca

Mi piace sempre Erri De Luca, breve, tagliente, incisivo; con la sua scrittura minima riesce a lanciare sciabolate che tagliano il velo che copre verità, singole parole capaci di incidere come una lama ed aprire orizzonti.
Ho deciso di entrare dentro questa “storia capovolta” di cimentarmi in qualcosa che non avevo mai fatto e chissà mai se rifarò: provare a raccontarvi questo libro.

Sarà un viaggio breve (è un chiaro invito alla lettura) ed affascinante dentro un mondo che fino a qualche centinaia di anni fa sostanzialmente non esisteva.
Non esisteva quella che è la concezione attuale della montagna, non esisteva semplicemente perché le stesse erano invise ai più, erano considerate malformazioni del paesaggio, luoghi inaccessibili e per questo pericolosi, lande sostanzialmente “inutili”, finanche presenze inquietanti che incombevano.

Il loro essere così austere, così difficili per la sopravvivenza umana, così implacabili nelle stagioni più fredde, ha allontanato per centinaia d’anni l’uomo da vette, altipiani, forcelle.
Nel corso degli ultimi tre secoli abbiamo assistito ad una vera e propria rivoluzione nella percezione di queste immense opere naturali ed ecco il titolo del libro: Montagne della mente; scrive Macfarlane:

“..il mutamento è stato così radicale che a guardarlo dalla prospettiva odierna non si può fare a meno di constatare un dato di fatto riguardo al paesaggio: il modo in cui lo percepiamo è in gran parte dettato dalla cultura in cui viviamo. In altre parole quando guardiamo un paesaggio non vediamo quello che c’è, ma quello che pensiamo ci sia” .

Montagne della mente

Thomas Burnet pastore anglicano e mentore di tanti giovinetti di aristocratiche famiglie inglesi, nel 1672 decide di portare in Italia il suo primo “rampollo” e passando le Alpi al passo del Sempione, fermo presso una sgangherata locanda tra le cime, nonostante i tanti disagi cui deve sottostare in quel luogo poco ospitale, scrive: “Sono felice, perché quassù tra le montagne ho trovato un luogo completamente diverso da ogni altro che conosca: un luogo che per il momento ha inceppato le mie capacità di ragionare”

Il Child Harold di Byron scrive “Per me le montagne sono una sensazione” …ed ancora Mallory successivamente scriverà “l’Everest ha le creste più ripide ed i precipizi più spaventosi che abbia mai visto. Mia cara …non posso dirti come mi possiede”

Fu la geologia in realtà a scardinare la visione “drammatica” che la società aveva della montagna, furono la geologia e soprattutto i geologi camminatori a far lentamente virare la percezione dell’uomo comune nei confronti delle catene montuose. Gli studi, le intuizioni, le scoperte e gli scritti di questi grandi personaggi decostruirono pensieri e ne costruirono di nuovi.

L’elemento determinante per questa rivoluzione fu il tempo o meglio la concezione del tempo; scrive Hutton: “Da questa nostra ricerca risulta pertanto che non abbiamo trovato vestigia di un inizio, né prospettiva di una fine” e da questo cambio di passo inizia a nascere la fascinazione verso questi luoghi sinora così negletti. Scrive il Macfarlane:

“Tutto ad un tratto quei simboli della permanenza acquistarono un’affascinante, sconcertante mutabilità. Erano sempre apparse durevoli, eterne ed invece si erano formate, deformate, riformate nell’arco di chissà quanti millenni; il loro aspetto attuale era solo una fase dei perpetui cicli di erosione e sollevamento che determinavano la conformazione della crosta terrestre”

Questa nuova visione avvicinava la montagna all’uomo, la rendeva meno “inaccessibile” meno inavvicinabile anche e soprattutto nel percepito comune ed un po’ alla volta si fece strada l’idea che “la frequentazione della montagna non era solo un muoversi verso l’alto nello spazio, ma anche un muoversi indietro nel tempo” (Burnet).

Lo stesso Macfarlane nelle sue numerose “cavalcate” tra i Cairgorn ed il Ben Nevis, tra valli e loch (laghi di montagna) come travolto da un’improvvisa illuminazione nel suo contemplare rocce e pieghe, spigoli e forre, scrive:

“E all’improvviso fui inghiottito dal tempo. …una conoscenza anche superficiale della geologia ci regala lenti speciali con cui osservare il paesaggio; sono lenti che consentono di guardare nel passato, vedere mondi in cui le rocce si liquefanno ed i mari si pietrificano, dove il granito è molle come un budino, il basalto ribolle come uno stufato sul fuoco ed i banchi di calcare si ripiegano come lenzuola”

Leggendo questa magistrale descrizione non posso non ricordare i cammini fatti e porto con me due immagini sopra tutte: la prima riguarda un ignoto fantastico spuntone di roccia che si eleva piegandosi quasi a 90° dalle creste dell’Appennino Reggiano come un albero inclinato dalle tempeste ma che nel suo crescere indomito si raddrizza verso il sole …l’albero necessita di qualche decina di anni, all’indomito spuntone di roccia migliaia e decine di migliaia di anni e poi rileggendo “banchi di calcare che si piegano come lenzuola” rivedo davanti agli occhi le straordinarie pieghe che accompagnano per chilometri i nostri passi all’interno di quel luogo magico che sono le gole di Samaria nell’isola di Creta; in questo luogo incredibile già Patrimonio Unesco “vedere” rocce liquefarsi, “percepire” il ribollir di basalti e soprattutto il contemplare le fenomenali pieghe della montagna è un’esperienza fuori dal tempo.

Quest’anno a fine Ottobre abbiamo camminato nelle gole proprio l’ultimo giorno prima della chiusura, eravamo soli, il tempo aveva già virato verso l’autunno ed il silenzio regnava incontrastato. Questa serie di fortunate coincidenze ci hanno permesso di immergerci letteralmente in un’atmosfera assolutamente fuori dal comune e soprattutto fuori dal tempo, le pieghe della roccia come anse di un fiume verticale, i colori cangianti delle pareti che ci ricordavano il ribollir di mille minerali diversi a fondersi e solidificarsi, le forme tra le più bizzarre e fantastiche a ricordarci che nulla può più della Natura.

Addentrarsi nello spazio e camminare nel tempo, lasciando fluire il vissuto presente; tempo e spazio, due dimensioni che si intrecciano, così come l’enormità delle montagne rispetto all’uomo che lo riporta alla dicotomia mai distante tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, Blaise Pascal constata “come l’uomo sia precariamente in bilico tra due abissi: l’invisibile mondo atomico , con la sua infinità di universi, il proprio firmamento, i propri pianeti e la propria terra e “l’invisibile” cosmo, così insondabilmente vasto, nel cielo notturno, con la sua infinità di universi”

Questa ricerca di un tempo profondo tocca le anime dei più sensibili e li invita a scuotere la polvere dai calzari ed andare alla ricerca di questi spazi sconosciuti per scoprirli dall’interno, non guardarli da lontano ma penetrarli e lasciandosi penetrare, con i piedi, con le mani e con la curiosità.

“Sono anni che vado in montagna ed il tempo profondo mi affascina …una volta in Scozia salendo al Ben Lawers un monte ricco di miche, in una giornata di sole, trovai un blocco quadrato di roccia sedimentaria …mi accorsi che era formato da centinaia di sottili lamelle di roccia grigia, non più spesse di un cartoncino. Ogni strato calcolai valeva diecimila anni …cento secoli condensati in tre millimetri di roccia. Tra due fogli si intravedeva una sottilissima riga argentata. Infilai in quel punto la lama della piccozza e facendo leva cercai di spaccare la roccia. ..tirai forte e la roccia si scoperchiò rivelando lo strato di mica nascosto tra due strati di roccia grigia: mezzo metro quadrato d’argento che luccicava allegramente al sole. Doveva essere la prima luce che vedeva da milioni di anni”.

La lettura di questi passaggi mi catapulta in un mondo altrove dove i nostri paradigmi temporali fatti di ore minuti secondi perdono di consistenza e si polverizzavano fino a scomparire; ciò non vuol dire che perdono di importanza, sono il primo a pensare che gli istanti sono eterni, ma proprio per questo una visione come questa, il pensare che quella “doveva essere la prima luce che vedeva da milioni di anni” mi riempie di stupore, di meraviglia, di profonda gratitudine.
Quando cammino tra i sentieri delle mie Dolomiti ed alzo gli occhi alle cime e torno con la mente a queste letture mi sovviene quel detto che lessi da qualche parte “Pensa come una montagna”.

Lo stupore e la nuova meraviglia nella società del tempo (siamo verso il XVIII – XIX sec.) verso la montagna portano con sé la curiosità verso un mondo sconosciuto ai più non solo perché inesplorato, ma in quanto luogo al di fuori dei propri confini mentali, un non luogo esterno ai propri spazi di pensiero, un qualcosa di altro da quanto sempre vissuto, pensato e finanche concepito.
Ed allora “l’ignoto accende l’immaginazione perché è uno spazio che si può plasmare a piacere, lo schermo su cui una cultura o un individuo possono proiettare le loro paure e le loro aspirazioni ….sono luoghi che si possono riempire con qualsivoglia promessa e timore, sono luoghi di infinite possibilità” …sono propedeutici al sogno, al senza limite, all’andare oltre.

Ogni qualvolta ci muoviamo sono svariate le motivazioni che ci spingono ad intraprendere, intraprendere nel vero senso della parola, lo spostamento, lo zaino, gli acquisti dedicati, il tempo da prendersi, l’abbandonare per un po’ la quotidianità, il dimenticarsi gli impegni, l’allontanarsi da parenti ed amici …questo ed altro è un vero e proprio intraprendere alla ricerca forte dello stupore, del ritrovare quel senso di ampio, di allargato, di imprevedibile che non ritroviamo nel nostro quotidiano ma di cui abbiamo un bisogno viscerale, innato, di cui non possiamo fare a meno.

Ed allora il passo dopo passo lungo strade, sentieri mulattiere a noi sconosciute ci permette proprio questo: di tornare alla nostra grandezza, di riscoprire e riscoprirci più grandi di quello che siamo; dietro ogni roccia, oltre ogni forcella, al di là di quell’ostacolo ci aspetterà qualcosa di nuovo e che potrebbe far vibrare di energia altra e più alta.
Le mappe o cartine rappresentano la sintesi di questo viaggio nell’ignoto che si intraprende già al tavolo di casa …”sulle più antiche mappe europee le montagne sono rappresentate in modo simbolico da figure che assomigliano a mucchi di talpa” …ed ancora sentite che bello:

“la Carta Cottoniana del mondo presenta una distesa di collinette color caramello tra le quali passeggia un mostro alato e gobbuto che assomiglia vagamente ad un leone. Dove finiva la conoscenza cominciava la leggenda: le creature fantastiche che popolano le carte antiche sono personificazioni dell’ignoto”

…ritorna la parola ignoto, la parola scoperta; le stesse mappe che dovrebbero indicarci i nostri punti di riferimento , le mappe che dovrebbero essere il nostro quadro sul territorio che vogliamo visitare ..beh diventano spazio di possibilità.

“Il fascino ed il piacere di una carta geografica stanno nella sua reticenza, nella sua incompletezza, in ciò che lascia all’immaginazione. La carta possiede (notava la viaggiatrice Rosita Forbes) la magia dell’aspettativa senza il sudore della realizzazione” e poi è evidente come le mappe portino intrinsecamente e fortunatamente con sé un grosso limite che diventa anche esso spazio di possibilità “Le carte non tengono conto del tempo, ma solo dello spazio. Non riconoscono che il paesaggio è in costante movimento, che si revisiona di continuo”

Montagne della mente

Sarebbe bellissimo se ciascuno di noi ad ogni viaggio portasse con sé carta penna colori e costruisse la propria cartina personale del luogo visitato; certamente torneremo tutti a casa molto più intrisi dei luoghi visitati perché avremo messo su materia il nostro vissuto e lo avremo fatto vivere in un’altra dimensione, a fine giornata avremo la possibilità di confrontarci con i compagni di viaggio per sorridere di schizzi, disegni, dello stile, di quanto visto e disegnato da uno e non dall’altro e usciremo molto arricchiti da questo gioco. Cosa abbiamo notato e cosa abbiamo perso nel cammino ci farà forse capire ad esempio quanto eravamo presenti o non presenti in quel momento, cosa ci ha colpito e perché, cosa è a noi passato inosservato e perché

Dei provetti “pandit” dei nostri sentieri ..anche quelli di casa. Nelle fasi delle conquiste e delle esplorazioni infatti, gli inglesi si resero conto dei gravi pericoli che correvano i loro uomini poiché i vari emiri non gradivano la presenza nelle loro terre di ufficiali di potenze straniere e così ricorsero ai pandit …

“Istruirono cartografi indiani travestiti da pellegrini per esplorare e rilevare territori. I pandit appunto, nome con cui sono passati alla storia, imparavano a percorrere lunghe distanze all’andatura costante di duemila passi a miglio ed a tenere il conto esatto dei passi compiuti con l’aiuto del rosario: ogni grano cento passi. Nel bastone nascondevano il termometro utile a determinare la quota in base alla temperatura di ebollizione dell’acqua, dentro il tamburo della preghiera (altro immancabile oggetto di devozione del pellegrino buddista) tenevano gli appunti ed i dati raccolti”

Lo spirito di esplorazione si trasformò lentamente sia in terra sia sulle montagne in una spasmodica ricerca di cancellare dalla faccia della terra i “luoghi ignoti” ed al contempo in una tendenza alla conquista.
Ma è pur vero che dissipato lo sforzo di questa frenetica ricerca di spazi inconosciuti l’uomo ritornò a capire che questa sete dell’imprevedibile non si sarebbe mai saziata perché insita in lui e nonostante sia quanto mai vera l’affermazione “Gli uomini non perderanno mai il senso dello stupore, ma si adopereranno sempre per perderlo” il desiderio di altezze spazi e ignoto rimane e riempie i nostri desiderata ed in questi tempi di grandi chiusure più che mai ne abbiamo individuata la sorgente …in noi …e ne abbiamo percepito il motivo “L’ignoto esiste in modo perfetto solo nell’attesa, nell’immaginazione” e noi abbiamo più che mai bisogno di nutrire la nostra immaginazione …basta sapere dove guardare ed avere voglia di farlo

Montagne della mente

Concludo con un ricordo personale: quando ero ben più giovane e mi struggevo per questioni d’amore o ricerca del senso o desiderio di fuggire altrove …prendevo la macchina con la patente appena presa e salivo a Zoppè di Cadore, lì all’ultima curva prima di entrare in paese …era da lì infatti che si poteva contemplare in tutta la sua possenza il Monte Pelmo, il “caregon de Dio”, la mia montagna della mente e come scriveva Mallory … “era difficile spiegare quanto mi rapisse quella visione” …e mi rapisce tuttora.

Enrico Buttignon